di Renato Avesani
Sto guardando con un certo stupore, ma, ahimè anche con un certo disincanto, a questa recente iniziativa di dialogo sulla Fisiatria e sulla Riabilitazione ( sinonimi ?)
Appartengo anch’io, purtroppo, a quelli della vecchia generazione ( specializzazione nel 1984) e quindi posso dire a buon titolo di aver osservato da vicino, ma anche con un certo distacco, alle vicende alterne della riabilitazione italiana, anzi delle regioni italiane.
Sono tra coloro che hanno cominciato dal territorio e poi sono approdato in ospedale. Anzi, in un ospedale privato , ancorchè classificato. Dovrei ritenermi, secondo alcuni colleghi ( di serie A?) , tra coloro che sono stati complici dello scempio e delle ruberie o dell’abuso di riabilitazione ( e di terapie fisiche). Ho avuto l’onore di conoscere la riabilitazione di molti storici istituti privati di riabilitazione, all’epoca nella quale il pubblico disdegnava tali percorsi. Ho imparato molto. Ho avuto anche la sventura di esser stato segretario regionale nella mia regione ( Veneto) e di aver difeso contro il parere unito del collegio primariale pubblico le terapie fisiche dal tentativo ( poi andato a buon fine ) della Regione di affossarle. Ho notato poi con un certo stupore come gli stessi affossatori abbiano convenuto che è stata una perdita per la professione, per le scuole di specialità,..
Ecco, forse la mia crisi come fisiatra ormai maturo, non deriva tanto dal non sapere chi sono ma dal fatto che in questo mondo variegato sia mancata per tanti anni e continui a mancare coerenza, coesione, lungimiranza, amor proprio. Anche da parte mia forse.
Siamo dei pendoli oscillanti tra il rigore scientifico e la medicina narrativa, tra un ICF mai realizzato e realizzabile ed il rigore DRG/percorsi/PDTA , tra la riqualificazione professionale ed altri percorsi magari piu’ variegati e privi di concretezza.
Proseguo con un ricordo di una frase di Silvano Boccardi : la riabilitazione senza prefissi e suffissi. Era poi la visione di un altro caratterino della riabilitazione, tal Cecilia Morosini.
Purtroppo le cose non sono andate così. Nel tentativo, sicuramente in buona fede, di specializzare gli interventi, di valorizzarli, di creare uno spirito di confronto… è nata la riabilitazione ortopedica, pneumologica, cardiologica, neurologica, alta specialità, etc etc. Un primo passo per perdere l’idea di persona e di globalità. Nessuno puo’ al giorno d’oggi essere tuttologo, ma forse anche dichiarare apertamente che si appartiene all’area neurologica od ortopedica non aiuta proprio a dare l’dea di una formazione medica che mira alla globalità. Sono nate poi le varie società scientifiche di settore , ed altre ne nasceranno. Posti da occupare, inviti a congressi, moltiplicazione di congressi e corsi. Al che uno non sa piu’ a cosa si deve iscrivere , quante tessere deve pagare, quanti congressi deve alimentare e sostenere.
Proseguo con alcune altre suggestioni.
Abbiamo smarrito il senso del concreto e ci siamo adeguati goffamente al ritmo della medicina dell’acuzie. Abbiamo supinamente accettato gli abbattimenti tariffari nel cod 56 e, chi già non li aveva, ha spinto per trasformare i propri letti in codici di alta specialità. Senza badare all’epidemiologia ( vedi mielolesioni, GCA), senza badare ad introdurre reali criteri di appropriatezza ( non ne vedo all’orizzonte neppure ora se non quelli a carattere economico/temporale). E così abbiamo tutti imparato che l’emiplegico in 60 giorni si deve mettere in piedi e così via. Mi chiedo se abbiamo mai vissuto ( io sì) a fianco dei terapisti e dei pazienti per non accorgersi che non si puo’ codificare e restringere la malattia in termini temporali. Dove sta , in questa logica la personalizzazione, l’individualità, la logica ICF… Giusta l’idea di lavorare sul territorio ma quando si puo’ ( il momento giusto per il paziente) e dove si puo'( c’è territorio e territorio). Non ci siamo resi conto che, nel frattempo, alla faccia delle nostre discussioni si sta assistendo allo smantellamento dello stato sociale e del binomio “socio-sanitario” resta ormai ben poco.
Certo si può far presto a dimettere. I familiari del paziente ancora non autonomo, con barriere a domicilio,sono messi in un vicolo cieco e quindi tenuti a pagare strutture alternative, degenze alternative.. a pagamento s’intende!
Eppure avremmo dovuto essere quelli che dell’integrazione ne facevano la loro bandiera ( riabilitazione medica e sociale, ma non separate!).
I piu’ fortunati ( si fa per dire)tra i pazienti , se degenti in alta specialità, possono star tranquilli. Lì non c’è tetto o comunque si puo’ largheggiare !
Ancora. Sulla scia della risposta immediata ( non al paziente si badi bene, ma alle logiche DRG), abbiamo riempito i reparti di pazienti instabili, complicati, infetti, anche magari senza reali potenzialità riabilitative ( c’è sempre da fare ovviamente anche su queste persone , ma la potenzialità riabilitativa è altra cosa), perdendo di vista quali sono poi gli obiettivi realmente raggiungibili. Corriamo il rischio di omologare nelle “tre ore di riabilitazione” tutti : quelli che possono fare vera riabilitazione e quelli che a stento sopravvivono alle loro gravi menomazioni. Una mancanza di flessibilità, un non essere riusciti a far capire che riabilitazione non è analogo ad assistenza e nemmeno a cure internistiche. Ci stiamo da anni scontrando tutti sulla indimissibilità dei pazienti complessi ( sotto ogni profilo) ed invece di spingere per rafforzare lo stato sociale.. abbiamo pensato che c’era bisogno di altri posti letto di riabilitazione. E questo anche superando bellamente dichiarazioni di principio in piu’ occasioni da noi stessi fatte ( vedasi Consensus varie). Sì, ho sentito anch’io ( nell’ultimo Congresso SIMFER?) dire che ora bisogna ridurli ! Misteri..Forse bisognava aumentare i propri letti e ridurre quelli degli altri?
Tutto questo nasconde, a mio modesto avviso, una crisi di identità, oserei dire piu’ verticistica che della base.
Ma, oltre a questo sterile piagnisteo, si potrebbe avanzare qualche proposta di recupero?.
Perchè no? butto lì le mie.
– fare un percorso di avvicinamento delle varie società scientifiche per arrivare ad una vera società di riabilitazione. Forse fra decenni.. l’alternativa è galoppare verso la riabilitazione d’organo che è cio’ che vogliono gli altri Colleghi di altre specialità. Impresa titanica, utopica!
– lavorare perchè le scuole di specialità siano piu’ integrate con la realtà territoriale ed ospedaliera. Lavorare nelle scuole di specialità perchè i medici siano degli artigiani e sappiano pure loro lavorare con le mani ( sul paziente s’intende). Impresa fattibile ma occorre far presto.
– creare dei criteri di appropriatezza riabilitativa all’interno dei vari setting ospedalieri. Criteri magari nostri che non approderanno mai in delibere regionali , ma che, raccolti con cura e professionalità , permetterebbero confronto e crescita. Ma cos’altro dovrebbe fare una società scientifica se non definire regole interne e criteri condivisi? Impresa tardiva ma forse interessante.
– arrivare ad una consapevolezza culturale di desistenza terapeutica nei confronti di situazioni gravi/stabilizzate/inemendabili. La cultura del limite , e non quella della potenza e dell’onnipotenza, dovrebbe essere nostro pane. Anche questo dovrebbe essere insegnato nelle scuole di specialità e piu’ in generale nel corso di laurea. Ma dovrebbe anche essere comunicato alla popolazione che la malattia esiste, la non guarigione pure, il limite è presente. Impresa culturalmente e socialmente utile alle prossime generazioni.
– eliminare i campanilismi che troppo spesso negli anni hanno affossato progetti anche seri. Abbiamo perso troppi treni per permetterci di perderne altri. Per decenni si è discusso e tentato di formulare un registro sulle GCA, Stroke, Mielolesioni. Progetti nati, defunti, ripresi , senza che la SIMFER abbia saputo mai imporsi sulle piccole beghe di potere regionale. Risultato: siamo al punto 0 di 20 anni fa. Quindi impresa impossibile perchè cozza con il regionalismo imperante .
Ecco, credo che se nascessi fisiatra oggi avrei delle forti crisi di identità!
Eppure sostengo che siamo tra i pochi con la possibilità di avere una visione globale della persona, della malattia e tra i pochi che hanno la possibilità di riflettere sulle potenzialità e sui limiti della natura umana. Questo aiuta a non perdere il buon senso molto difficile da trovare nei percorsi sanitari.
Renato Avesani
Bravo Renato,
bellissime parole che condivido al 110%.!
Giuseppe Ridulfo