di Carla Rossella Cavallo
Una nuova esperienza di crescita professionale, in un particolare momento mio
personale e sociale come questo del CONVID – 19, inaspettatamente arriva una mail alla quale
non sono rimasta indifferente.
L’idea di provare qualcosa non fatta prima, di mettermi in gioco in un’attività che mi
piace tanto, alla quale dedicherei giornate intere per immagazzinare sempre più strategie,
teorie, supposizioni, ecc… mi ha coinvolto a 360°, emotivamente e psicologicamente.
Sarà che mi lascio coinvolgere da ciò che mi piace, sarà che ne ho bisogno come le piante
della linfa, sarà che anche l’esperienza universitaria da docente mi ha lasciato una grande
soddisfazione e curiosità di imparare per dare ancora agli studenti.
Una nuova sfida con me stessa, fin ora ho sempre avuto occasioni come Pedagogista
Clinico, di fare interventi educativi su vari temi in presenza, ogni volta ansia, stupore nel
vedere la frequenza, l’incognito finchè non si finisce l’incontro e tanti fattori che entrano in
gioco in quei momenti. Questa volta è stato diverso ho parlato ad uno schermo, con un muro
bianco dietro, le luci che riflettono, l’ansia o il timore di non arrivare chiaramente a chi mi
ascoltava e il non vedere chi ti ascolta (le loro espressioni e movimenti).
Interventi scritti e numero dei partecipanti e delle ulteriori visualizzazioni scritte
lateralmente, a questo punto si capisce, sto parlando di una diretta fatta…le nuove tecnologie i
nuovi mezzi di comunicazione, tanto e forse fin troppo utilizzati ma che in questa situazione
sono indispensabili per arrivare agli altri. Diretti? Efficaci? Non lo so e credo in parte si ma in
parte no, perché non potranno mai sostituire la sensazione di avere di fronte la persona umana,
a volte si ha bisogno anche di empatia. Ho vissuto esperienze dirette da professionista e quindi
con la persona di fronte, ed esperienze da persona (io) di fronte al professionista, ho vissuto
l’esperienza da professionista dietro lo schermo e viceversa come uditrice.
Non posso e non voglio dire cosa sia meglio o peggio ma posso dirvi cosa preferisco e
sinceramente preferisco la presenza.
A questo punto c’è da fare un’osservazione dipende molto anche da chi è di fronte a noi ,
dalla sua capacità di essere chiaro, di comunicare e di arrivare. Si comunica anche in modo non
verbale, con i gesti, con gli sguardi, con la disponibilità di ascolto e di riflessione condivisa.
Oggi tutti tendiamo ad utilizzare le tecnologie, a cercare le risposte da soli, a sostituire
l’altro anche se non si hanno le competenze. Mi verrebbe da rispondere istintivamente che non
è giusto ma riflettendo penso anche a tanti che non hanno trovato la componente giusta in un
dialogo.
Credo fortemente, perché provata sulla mia pelle e sperimentata come professionista,
che l’empatia sia fondamentale, purtroppo non è da tutti. Semplicemente è un’abilità sociale e
rappresenta uno degli strumenti di base di una comunicazione interpersonale efficace e
gratificante.
Vediamo cosa significa empatia: il termine deriva dal greco, en-pathos “sentire dentro”,
e consiste nel riconoscere le emozioni degli altri come se fossero proprie, calandosi nella realtà
altrui per comprenderne punti di vista, pensieri, sentimenti, emozioni e “pathos”.
Consiste nel capire lo stato d’animo delle persone che lo circondano, non si basa su antipatia
o simpatia non c’è un giudizio morale, infatti si può essere empatici pur non conoscendo una
persona.
Utilizzando l’empatia si coglie anche il significato più nascosto, psico-emotivo
consentendoci di ampliare il messaggio, cogliendone elementi che spesso vanno al là del
contenuto semantico della frase, comunicandoci la parte più significativa del messaggio quella
espressa dal linguaggio del corpo.
Sembrerà stano ma in questo argomento entra in gioco anche un ormone, che ha il
nome di ossitocina, sembrerebbe che incida sull’empatia. L’ossitocina oltre a stimolare la
muscolatura liscia dell’utero, sembra incidere sull’encefalo determinando una maggiore o
minore capacità di percepire le emozioni altrui, migliorando non solo il rapporto con sé stessi
ma anche quello con gli altri e incrementando autostima e cordialità.
Facendo un brevissimo excursus storico, notiamo che gli studi sull’ empatia risalgono al
1921 con Freud, il quale non considera l’empatia come un metodo terapeutico ma come mezzo
per conoscere l’esistenza di una vita psichica diversa dalla nostra.
Successivamente Kohut considerò l’empatia anche come un importante strumento
terapeutico.
Nel 1934, Mead aggiunse all’ empatia una componente cognitiva.
Invece, nel 2006 secondo Gallese alla base dell’empatia ci sarebbe un processo di
‘simulazione incarnata’, cioè di un meccanismo di natura motoria, caratterizzato da neuroni
che agirebbero subito prima di ogni elaborazione.
Si deduce che questo argomento non è moderno, tanto meno non proviene da semplici
scritti anzi è stato oggetto di diverse modalità di studi e ci sarebbe ancora tanto da scrivere ma
per ora io mi fermo qui. A me interessa comunicare che tutti dovremmo cercare di sviluppare
questa capacità.
Si può sviluppare l’empatia?
La mia risposta è si. Non c’è un età specifica ovvio che si può ed è meglio iniziare da piccoli,
infatti grazie ai diversi studi oggi in diverse scuole si inizia da piccolissimi a lavorare con le
emozioni. Bastano piccoli gesti ne è testimone uno studio pubblicato su Proceedings of the
National Academy of Sciences, che svela quanto possa essere facile superare i pregiudizi e
cambiare il modo in cui si percepisce uno sconosciuto.
Quando scrissi la mia tesi di laurea la intitolai “L’integrazione del bambino disabile nella
scuola primaria tra accoglienza e pregiudizi”, mi documentai dal punto di vista legislativo e
pedagogico e lessi tanto, ma mi colpì e ancora lo ricordo il prof. Canevaro, che di inclusione ha
scritto tanto, diceva: “una persona è relativamente “handicappata”, cioè l’handicap è un fatto
relativo e non un assoluto, al contrario di ciò che si può dire per il deficit. In altri termini,
un’amputazione non può essere negata ed è quindi assoluta; lo svantaggio (handicap) è invece relativo
alle condizioni di vita e di lavoro, quindi alla realtà in cui l’individuo amputato è collocato. L’handicap è
dunque un incontro fra individuo e situazione”.
Principalmente da insegnante e da persona la mia riflessione a questa frase è che ogni
giorno dovremmo cercare di creare le condizioni per il superamento dell’handicap. Perché
parlando di empatia ho fatto riferimento all’handicap? Perché nasco come insegnante di
sostegno specializzata e per dieci anni ho sperimentato direttamente nelle scuole e anche se da
qualche anno insegno alla classe la mia passione non è svanita, anzi e avendo l’opportunità di
insegnare all’università degli studi di Verona al corso specializzante per il sostegno capite bene
che continuo ad occuparmi dell’argomento, tutto ciò mi permette di dire che l’empatia può
aiutare, a superare la nostra stessa sensazione stigmatizzante.
Vi lascio riflettere a riguardo ma concludo facendo un piccolo salto a ciò che ho detto
inizialmente e cioè che purtroppo non è da tutti essere empatici, esiste il contrario di empatia e
qual è il suo contrario? Diversi autori hanno coniato il termine DISPATIA: incapacità di
condividere le emozioni e i sentimenti altrui.
Così vi lascio!