di Francesca Santangelo
La salute è un diritto assoluto, che rientra tra i diritti fondamentali dell’ordinamento giuridico nazionale (art. 32 Cost.) e transnazionale, che oggi è inteso come un concetto polisemico che non racchiude in sé più soltanto una nozione di integrità fisica del soggetto sottoposto a cura, ma comprende anche quella di natura psichica.
Le attività mediche, seppur utili e lecite in ragione delle loro finalità di tutela del diritto alla salute, contengono un carattere intrinseco di pericolosità per i rischi che tale attività porta con sé sia nei mezzi che nei risultati.
Ciò ha indotto il legislatore a consentirla entro un determinato limite di liceità,oltre il quale il professionista si spingerebbe nel campo della responsabilità.
In questa sede si cercherà di comprendere quando il medico incorra in responsabilità di natura penale.
In generale, sussiste la responsabilità medica quando il professionista mediante una condotta attiva o omissiva commette errori nell’esecuzione della sua prestazione ed arreca una lesione all’integrità psico-fisica del paziente (o al suo bene vita, qualora ne consegua la morte).
È necessario che tra l’azione posta in essere dal professionista e l’evento (cioè il danno subìto dal paziente) ci sia un nesso di causalità, cioè che il secondo sia conseguenza diretta della prima. In sostanza, la responsabilità sussiste solo qualora si dimostri che il danno subìto non si sarebbe verificato se non fosse stata messa in atto quella condotta. Ovviamente, il nesso di causalità vale anche per i casi di omissione.
Per parlare di colpa medica, dunque, devono necessariamente sussistere tre elementi: l’azione o l’omissione dell’operatore sanitario, il danno in capo al paziente ed il nesso di causalità tra entrambi.
Tuttavia, non basta che si realizzi l’elemento materiale o oggettivo di cui si è parlato, ma è necessario che quest’ultimo sia sorretto dall’elemento psicologico o soggettivo. Il professionista cioè deve aver agito con dolo, preterintenzione o colpa.
Ferme restando le ipotesi dolose e preterintenzionali, il problema che qui verrà affrontato concerne la figura colposa, la quale è stata oggetto di reiterate modifiche legislative, necessarie per contemperare le disposizioni normative generali precedenti, le quali configuravano la responsabilità penale del medico a prescindere dal grado della colpa.
Per correttezza espositiva, è opportuno ricordare l’art. 43 c.p., il cui terzo comma recita che il reato “è colposo o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
La prima rilevante modifica è stata attuata dalla legge Balduzzi (n. 189/2012).
Più in particolare, il comma 1 dell’art. 3 di tale legge (abrogato dalla legge Gelli) così recitava: “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Dunque, la norma stabiliva che l’esercente la professione sanitaria non sarebbe stato considerato responsabile nei casi di “colpa lieve” e sempre che, nello svolgimento della propria attività, si fosse attenuto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica.
A fare chiarezza sulla distinzione tra colpa lieve e colpa grave è intervenuta la Cassazione, secondo cui la colpa lieve si ha quando vi sono“margini di dubbio circa l’attenersi o no (alle linee guida)[…].[…]colpa grave […]quando è indubbio che non ci si dovesse attenere alle linee guida, quando cioè la colpa è macroscopica, “spaccata”, quando il caso è “cantato”, quando i dati clinici assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessità di un intervento difforme e personalizzato…” (Cass. Pen. N.11804/2014)
Il tentativo della L. Balduzzi altro non era che quello di fornire una soluzione al proliferare di contenziosi tra medici e pazienti, i quali, insieme all’opera dei media, fomentavano la creazione di una figura distorta del sanitario e della sua professionalità ed avevano indotto i medici a proteggersi (medicina difensiva) attraverso prescrizioni di esami e visite superflue o il rifiuto di eseguire prestazioni rischiose.
Tuttavia, l’incompletezza e la disorganicità della L. Balduzzi in sede di applicazione normativa ai casi concreti induceva il legislatore a dettare una disciplina più chiara, emanando la L. c.d. Gelli (n.24/2017), la quale, abrogando l’art. 3 della L. Balduzzi, introduceva l’art. 590 sexies nel codice penale.
Con tale norma si ridà importanza alla distinzione tra negligenza, imprudenza ed imperizia, messa in secondo piano con la L. Balduzzi, la quale aveva invece messo in risalto la distinzione tra colpa lieve e colpa grave.
Per la manualistica tradizionale, si ha negligenza nei casi di errore di valutazione, noncuranza e difetto di attenzione nel compimento di un’attività, mentre l’imprudenza si realizza nei casi di avventatezza ed insufficiente ponderazione.
L’imperizia, invece, riguarda l’ambito dell’esperienza o inesperienza del medico. Essa si caratterizza per l’inosservanza della “leges artis“, ossia per aver il sanitario violato una regola specialistica e/o tecnica, violazione dovuta a sua ignoranza, inabilità o inettitudinead applicarla oppure per la sua concreta non applicazione nonostante l’obbligo di farlo.
Dunque, l’art. 590-sexiesc.p., rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario“, al primo comma sancisce in generale che, se i fatti previsti dagli artt. 589 e 590 del codice penale sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste, fatto salvo quanto disposto dal comma successivo dello stesso art. 590 sexies.
Nel comma secondo, invece, il legislatore specifica che “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto“.
Dunque, la punibilità del sanitario è esclusa in presenza di tre fattori: la realizzazione dell’evento a causa di imperizia, il rispetto delle raccomandazioni previste dalle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali laddove difettino linee guida pertinenti e l’adeguatezza delle linee guida alla specificità del caso concreto.
Ne consegue che, qualora tali raccomandazioni non coincidano con la migliore cura per lo specifico caso del paziente, il sanitario dovrà discostarsene.
Il susseguirsi delle due leggi (L. Balduzzi e L. Gelli) ha provocato non poca confusione. Ciò perché la legge Gelli non fa più espressamente riferimento alla distinzione tra colpa lieve e colpa grave e questo potrebbe erroneamente indurre a credere che il sanitario sia esente da responsabilità penale tutte le volte in cui la sua condotta integri un atteggiamento imperito. Ma non è così.
Infatti, attribuendo alla causa di non punibilità di cui all’art. 590 sexies c.p. una portata applicativa impropriamente ampia, si renderebbe non punibile qualunque condotta imperita (anche grave) del sanitario che abbia arrecato al paziente lesioni o morte, sul solo presupposto che lo stesso si sia attenuto alle linee guida. Ciò sarebbe non solo di dubbia compatibilità costituzionale (art. 32 Cost.) ma si creerebbe anche un’evidente disparità di trattamento rispetto a situazioni meno gravi ma sicuramente punibili, quali la negligenza e l’imprudenza lieve.
A chiarire tale problema interpretativo sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione le quali, ribadendo l’importanza della distinzione tra colpa lieve e colpa grave nell’ambito dell’imperizia, hanno evidenziato che la causa di non punibilità di cui all’art. 590 sexiesc.p. è applicabile alla sola ipotesi di imperizia lieve nella fase delle linee guida adeguate e correttamente individuate.
Da ciò ne consegue che il sanitario è punibile nelle ipotesi di imperizia (sia lieve che grave) verificatasi nella fase di individuazione delle linee guida adeguate nonché nelle ipotesi di imperizia grave nell’esecuzione delle stesse.
Riassumendo la SS. UU. hanno precisato che il medico risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali:
a) anche per colpa lieve a causa dinegligenza o imprudenza;
b) anche per colpa lieve da imperizia, qualora il caso concreto non sia regolato da linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali o nel caso in cui queste ultime siano state erroneamente individuate o non siano adeguate al caso di specie;
c) per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni contenute nelle linee-guida o nelle buone pratiche clinico-assistenziali pertinenti rispetto al caso concreto, avuto riguardo alle speciali difficoltà dell’atto medico.(ved. Cass. Sez. Un. N.8770/2017).
Articolo molto interessante, che fornisce numerosi spunti di riflessione.
L’articolo “la responsabilità penale colposa” di Francesca Santangelo è, ovviamente, di estremo interesse perché sintetizza in maniera mirabile una problematica con cui da sempre tutti i medici-chirurghi hanno dovuto fare i conti ma che non ha mai avuto una legislazione adeguata fino ad ora. Quello che mi auspico è, però, che la regolamentazione attuale della responsabilità penale colposa non sia fonte di terrore per i medici ma di stimolo alla buona condotta, all’attenzione ed alla giusta tensione nell’espletamento della loro opera. Complimenti .