di Francesca Santangelo
Erroneamente confusi nel linguaggio comune, fisiatra e fisioterapista sono due figure professionali che, pur operando entrambi nell’ambito della Riabilitazione, sono differenti. La loro diversità riguarda il percorso formativo e quindi le loro competenze ed i rispettivi ruoli.
Il fisiatra è un medico che ha conseguito la specializzazione in Medicina Fisica e Riabilitativa, con competenze in ambito ortopedico, reumatologico, di medicina sportiva ma anche neurologico, respiratorio ect. e, come tale, visita il paziente, prescrive e valuta eventuali esami di laboratorio e strumentali al fine di porre diagnosi e prescrivere un adeguato piano di trattamento.
Per diventare fisioterapisti, invece, è sufficiente seguire un percorso formativo universitario, al termine del quale si otterrà il relativo titolo, che consente allo stesso di operare nella fase pratica del trattamento riabilitativo, prescritto e definito dal fisiatra, non solo mediante esercizi fisici, ma anche ricorrendo all’uso di attrezzature o ausili.
La figura del fisioterapista è descritta dall’art. 1 del D.M. del 14 Settembre 1994 n. 741 come quell’operatore sanitario che, avendo conseguito il diploma universitario abilitante, svolga, “in via autonoma o in collaborazione con altre figure sanitarie, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nelle aree della motricità, delle funzioni corticali superiori e di quelle viscerali conseguenti a eventi patologici, a varia eziologia, congenita od acquisita”. La legge 251 del 2000, poi, precisa che gli operatori delle professioni sanitarie dell’area della riabilitazione hanno la facoltà di svolgere “con titolarità e autonomia professionale, nei confronti dei singoli individui e della collettività, attività dirette alla prevenzione, alla cura, alla riabilitazione e a procedure di valutazione funzionale, al fine di espletare le competenze proprie previste dai relativi profili professionali”.
Con tali interventi normativi la professione di fisioterapista smette di essere considerata “ausiliaria” e diviene una “professione sanitaria” e ciò ha indotto il fisioterapista a rivendicare autonomia professionale nei riguardi del fisiatra, allo scopo di svolgere la propria attività in modo indipendente dal medico, senza vincoli di subordinazione.
Tale rivendicazione, che avveniva facendo leva sull’“autonomia” di cui si parla nelle rispettive leggi ,ha trovato approvazione in alcune sentenze del TAR (cfr. TAR Cagliari sez. I n. 1511/2009; TAR Piemonte sez. II N.498/2011), con le quali si affermava l’opportunità di dover riconoscere uno spazio autonomo al fisioterapista, ma è stata poi respinta in via definitiva dal Consiglio di Stato (v. sentenze n.752/2015 e n. 5840/2017), il quale poneva in evidenza la centralità e la responsabilità del ruolo del medico nel percorso/progetto/programma terapeutico nell’area della riabilitazione e ribadiva che la diagnosi e la prescrizione di interventi terapeutici in campo riabilitativo sono di competenza e responsabilità del fisiatra anche se la loro esecuzione viene realizzata con l’intervento specifico del fisioterapista.
Alla luce dell’interpretazione fornita dal Consiglio di Stato è evidente che il D.M. 741/1994 e la legge 251/2000 non pongono sullo stesso piano il fisiatra ed il fisioterapista, ma, pur riconoscendo a quest’ultimo un ambito di autonomia, evidenziano il limite delle rispettive competenze (si consideri l’incipit del secondo comma dell’art. 1 del D.M. del 1994: “in riferimento alla diagnosi ed alle prescrizioni del medico, nell’ambito delle proprie competenze” e l’uso di “competenze proprie previste dai relativi profili professionali” nell’art.2 della L. 251/2000).
Oltretutto, se ciò avvenisse, si darebbe impropriamente la possibilità di conseguire lo stesso titolo con due percorsi del tutto differenti in termini di durata formativa e di competenza (anche generica) acquisita e non si comprenderebbe il senso logico di una duplice strada con lo stesso traguardo.
Dunque, l’autonomia del fisioterapista deve essere sempre intesa come limitata alla fase di esecuzione pratica della risposta riabilitativa, mentre la diagnosi e la formulazione del progetto riabilitativo rimangono di competenza medica.
Premessa tale differenza di ruoli e competenze, il fisioterapista, sia che operi in team sia che esegua una mansione di sua competenza, è responsabile di quanto espleta, sia sotto il profilo penale che civile.
In tema di responsabilità degli operatori sanitari, a differenza di quanto avveniva con la legislazione precedente che faceva riferimento alla figura del medico o dei suoi ausiliari in modo differenziato, il decreto Balduzzi prima (L. n. 189/2012) e la legge Gelli dopo (L.24/2017) smettono di far riferimento soltanto ai medici e a coloro che svolgono una professione sanitaria principale ed individuano come destinatari delle nuove norme gli “esercenti la professione sanitaria”. Tale espressione è fondamentale, perché indica in modo chiaro che le nuove disposizioni normative non si applicano soltanto ai medici ma anche a tutti coloro che non lo sono e, dunque, anche a chi esercita “professioni sanitarie riabilitative” (podologo, fisioterapista, logopedista, ortottista, terapista nella neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, tecnico riabilitazione psichiatrica, terapista occupazionale, educatore professionale).
In tema di responsabilità penale disciplinata dalla L. n. 24/2017 la novità più importante è rappresentata dall’introduzione nel codice penale dell’art. 590-sexies, per il quale si rinvia all’articolo pubblicato il 25 settembre 2019.
Ma la riforma ha toccato anche la responsabilità civile degli esercenti la professione sanitaria. Essa comporta che il soggetto che violi un dovere giuridico risarcisca il danno a chi lo ha subìto.
In diritto civile esistono due tipologie di responsabilità civile: contrattuale ed extracontrattuale.
La responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.) implica che il debitore, cioè colui che non esegue la prestazione o ritarda nell’eseguirla o non la esegue perfettamente, risarcisca il danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da una causa a lui non imputabile (es. rapporto instaurato tra medico specialista di fiducia e paziente).
La responsabilità extracontrattuale (o aquiliana), invece, scaturisce dall’incontro occasionale tra le sfere giuridiche delle parti (es. il paziente che viene operato d’urgenza dal medico di turno). Essa sorge quando un soggetto subisce un danno dalla condotta altrui e tra di essi manca un rapporto obbligatorio ed obbliga colui che ha commesso il fatto (doloso o colposo) a risarcire il danno ingiusto arrecato ex art. 2043 c.c.
Questa distinzione è doverosa per comprendere il c.d. “doppio binario di responsabilità” introdotto dalla legge Gelli (a carico dell’esercente la professione sanitaria e a carico della struttura sanitaria o socio-sanitaria).
In particolare, l’art. 7, comma terzo della L. n. 24/2017 prevede che l’esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato in via generale ai sensi dell’art. 2043 del codice civile e, quindi, a titolo di responsabilità extracontrattuale, salvo che abbia agito in adempimento di un’obbligazione contrattuale assunta con il paziente, perché in questo caso tra medico e paziente nasce un’obbligazione giuridica (consapevole).
Per comprendere quale sia il tipo di responsabilità in cui incorre il sanitario, non bisogna porre l’attenzione sulla distinzione tra sanitario-dipendente e sanitario-libero professionista, bensì su quella tra l’esercente che operi in una struttura sanitaria e/o sia lì incardinato e l’esercente che operi autonomamente al di fuori della stessa. Mentre quest’ultimo è sicuramente responsabile in via contrattuale, il primo (tranne quando abbia direttamente contrattato con il paziente) è responsabile in via extracontrattuale sia quando sia dipendente della struttura ed esegua la prestazione sanitaria nell’orario di lavoro, sia quando sia dipendente ed esegua la prestazione al di fuori dell’orario di lavoro (nella struttura o al di fuori di essa) sia quando non sia dipendente della struttura ma operi in essa perché scelto dal paziente, sia, ancora, quando si tratti di prestazione sanitaria di sperimentazione e ricerca o in regime di convenzione con il SSN o telemedicina.
La struttura sanitaria o socio-sanitaria interessata, pubblica o privata, che nell’adempimento della propria obbligazione stipulata con il paziente si avvalga dell’opera di esercenti le professioni sanitarie, risponde ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte colpose o dolose (dunque, a titolo contrattuale). Ciò perché il rapporto che si instaura tra paziente e struttura sanitaria o socio-sanitaria ha la sua fonte in un contratto atipico a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti dei terzi.
Infine, la struttura sanitaria, che sia stata chiamata a rispondere dell’illecito commesso dal sanitario, potrà poi rivalersi o agire in regresso nei confronti del sanitario colpevole.