RIABILITAZIONE versus ASSISTENZA



di Renato Avesani

Negli ultimi anni , grazie alle maggiori disponibilità tecnologiche e ad un crescente interesse nei confronti delle persone con Disturbi prolungati di coscienza,, si sta assistendo ad un crescente numero di soggetti inviati nelle riabilitazioni a seguito di grave danno cerebrale. Come è noto l’epidemiologia delle gravi cerebrolesioni in Italia è sensibilmente mutata negli ultimi decenni: sono sempre piu’ numerosi gli esiti vascolari ed anossici rispetto al trauma cranico. A cio’ va aggiunto il pregressivo aumento dell’età media e della comorbilità che spesso accompagnano i pazienti.
Un altro aspetto complica notevolmente la vita dei reparti di riabilitazione ed è conseguente alla scarsa conoscenza del significato della riabilitazione e della mission riabilitativa da parte dei reparti per acuti ed in particolare dalle Cure Intensive. Una notevole parte dei soggetti ricoverati in riabilitazione a seguito di danno cerebrale severo, specie se post anossico o emorragico, presentano problemi rilevanti sia dal punto di vista infettivo ( germi multiresistenti), respiratorio ( frequente la tracheostomia, talvolta la ventilazione assistita), alimentare ( frequente l’uso della PEG), sia dal punto di vista delle prospettive di recupero. E’ ormai chiaro che non basta un modesto recupero dello stato di coscienza ( MCS, MCS plus) per aprire vere prospettive di recupero. Anche la prolungata osservazione delle persone in SV spesso non conduce ad altro risultato che alla verifica di una emergenza dalla coscienza fine a se stessa. Tuttavia sia la ricerca di questo risultato, sia l’attesa di recuperi funzionali troppo spesso disattesi, fanno si che si prolunghino in modo inappropriato i ricoveri nei reparti di riabilitazione. Tali pazienti, come è noto sono soggetti fragili per il rischi infettivo elevato, perchè spesso portatori di germi multiresistenti, perchè facili ai decubiti, soggetti a rischio di infezioni polmonari etc. A questi aspetti clinici si associano frequentemente problematiche familiari e sociali che impediscono un processo di dimissione lineare. L’elaborazione del “lutto” da parte dei familiari impedisce una scelta rapida di collocazione in strutture long term care ; d’altra parte la realtà italiana non offre una risposta chiara e rapida nella collocazione in queste strutture di pazienti complessi. In molti casi i tempi decisionali ed amministrativi sono molto articolati e lunghi. 
A titolo di esempio si riporta la richiesta di ricovero di un paziente:
LG uomo di 75 anni fa un ACC e viene lungamente rianimati prima di riprendere il ritmo cardiaco. Il coma post anossico si protrae per settimane; essendo anche arteriopatico, viene amputato per una grave condizione ischemica ad arto inferiore. Non si risveglia ma viene comunque inviato in riabilitazione intensiva Cod75. Per la presenza di germi mutiresistenti viene lungamente isolato e gestito con un nursing riabilitativo, rieducazione respiratoria, mobilizzazione etc. Dopo 4 mesi di ricovero non si è assistito ad alcun cambiamento della condizione di stato vegetativo. Il paziente rimane altri 5 mesi ricoverato per indisponibilità delle strutture territoriali di accoglienza. Alla fine esce , viene collocato in struttura ove rimane 20 gg per poi rientrare in ospedale per episodio settico. 
Il caso presentato, pone importanti interrogativi dal punto di vista etico, ma anche dal punto di vista dell’idea stessa di riabilitazione. Quali sono gli obiettivi? Possono essere considerati obiettivi riabilitativi la stabilizzazione clinica? Possono esserlo il nursing? l’addestramento dei familiari? Certamente tali obiettivi fanno parte di un percorso di cura e di riabilitazione. Ma quando l’obiettivo riabilitativo ( il famoso recupero) non esiste?
Che cos’è la riabilitazione? Certamente è tante cose e tutte molto lodevoli ed importanti, ma tuttavia non possiamo perdere di vista che scopo della riabilitazione è quello di lavorare sul “modificabile”, possibilmente sul funzionale e su condizioni che traggano vantaggio in termini di qualità di vita. Concetti troppo restrittivi? Possiamo cercare, con maggior coerenza, di separare recupero da mantenimento, riabilitazione da assistenza qualificata, accudimento dovuto da riabilitazione intensiva? 
Esistono poi degli aspetti piu’ organizzativi che rinviano all’ormai fin troppo gettonato termine di “appropriatezza”.
L’occupazione prolungata di un posto letto di un paziente con le caratteristiche sopra descritte o di pazienti con severi DOC e conseguenti gravi menomazioni motorie e totale dipendenza puo’ tranquillamente superare i sei mesi . Normalmente in tale periodo non si raggiungono ,se non raramente ,minimi obiettivi funzionali. La difficoltà di dimettere tali pazienti determina una riduzione dei posti letto usufruibili da parte di persone con disabilità anche rilevante ma con prospettive di recupero. Il turnover dei posti letto si riduce notevolmente ed è necessario ridurre le degenze dei pazienti con reali prospettive riabilitative per poter generare nuovi ricoveri. Questo si traduce, paradossalmente, in una riduzione degli interventi riabilitativi qualificati a favore dei pazienti che potrebbero trarne maggior vantaggio.
Nei prossimi anni il rischio potrebbe essere quello di congestionare i reparti cod 75 di situazioni gravi, a scarso potenziale di recupero, scarsamente permeabili agli aspetti basilari della riabilitazione e difficilmente dimissibili per le loro molteplici necessità, lasciando fuori dalla porta soggetti, pur con gravi menomazioni, ma che, per il solo fatto di non aver avuto un coma superiore alle 24 ore non avranno diritto all’expertise maturata da tali centri. 
La questione di definire cosa sia la riabilitazione non è quindi di secondaria importanza. Il concetto di modificabilità della disabilità e di miglioramento funzionale non appartiene, purtroppo, a tutte le condizioni di menomazione cerebrale ( ma anche ad altre menomazioni). Occorre quindi riflettere se non sia opportuno differenziare i percorsi identificando luoghi di elevata assistenza per le persone a basso o nullo potenziale di recupero e riservando i reparti di riabilitazione a quanti possono realmente trarre beneficio dagli interventi riabilitativi in senso funzionale ( anche se minimo). Non si tratta di creare persone di serie a e di serie b, ma ammettere che un ragionamento sull’appropriatezza riabilitativa deve partire da considerazioni sulla reale modificabilità della disabilità. Millantare percorsi riabilitativi impossibili non aiuta i professionisti, i familiari, i pazienti realmente rieducabili e non genera una cultura riabilitativa in grado di utilizzare al meglio le risorse.

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