di Morena Ottaviani
Ho un caso clinico, uno di quelli che alla fine, ti porta a fare tante considerazioni sia di ordine prettamente clinico-medico, sia morale, sia etico. In questo caso c’è una mamma intelligente, una di quelle che sa ascoltare il proprio figlio senza esasperare un suo disturbo, ma nemmeno sottovalutandolo. Suo figlio, che chiameremo B., ha 14 anni ed è un ragazzino come tanti della sua età: serio quel tanto che basta per fargli distinguere quando è il momento di scherzare e quando invece no, senza mai scordare quell’educazione che, evidentemente gli è stata insegnata: è, insomma, un ragazzo affidabile.
Improvvisamente B. percepisce un dolore acuto al braccio destro, continuo, importante, “come un crampo ma diverso” dice. E’ un dolore che lo sveglia di notte e non gli dà tregua; solo l’assunzione di FANS riesce a concedere un sollievo temporaneo, salvo poi ripresentarsi ad effetto esaurito. Il ragazzo gioca in porta a calcio, ma assicura di non avere subito alcun impatto traumatico né lieve e nemmeno rilevante. La mamma lo porta in Pronto Soccorso, non una ma ben due volte. In P.S. viene eseguito una radiografia del braccio destro ed il Radiologo commenta brevemente con un banale “assenza di lesioni traumatiche”…… ma questo lo aveva già detto il ragazzo al medico che lo ha accolto in P.S. e che, diligentemente, lo ha segnalato in scheda clinica. B. viene dimesso un prima volta e poi anche una seconda volta, dopo una decina di giorni che trascorrono sempre con la compagnia di questo dolore continuo, che non lo lascia mai. La seconda dimissione viene accompagnata dal consiglio di eseguire un’ecografia, un ecocolordoppler dell’arto superiore ed una EMG; inoltre, l’ortopedico che lo ha valutato, consiglia di eseguire una visita fisiatrica, che viene prontamente prenotata. Ma il caso vuole che il giorno della visita, nello stesso orario, B. ha prenotata una ecografia, così la mamma decide di disdettare la visita e di andare ad eseguire l’ecografia. Viene effettuata l’indagine ecografica del braccio, senza che venga comunque rilevato nulla dall’esecutore. A questo punto la mamma, che mi conosce per motivi indipendenti dalla mia professione, mi contatta telefonicamente, riassume la situazione e mi chiede di visitare B. Nel frattempo, sono già trascorsi 45 giorni dall’esordio doloroso. Vedo B. il giorno stesso. Mi ragguagliano ulteriormente, mi mostrano il referto dell’RX, l’ecografia, gli accertamento di routine effettuati in P.S.
Ma dov’è localizzato questo dolore? Il ragazzo (e la mamma, di conseguenza) lo riferisce verbalmente alla spalla destra, che si irradia sino al gomito, e sarebbe esacerbato da alcuni movimenti rotatori dell’arto superiore ed irradiato a livello del gomito e della spalla. Insisto, alla ricerca di un qualche piccolo trauma che magari possa essere passato indifferente a B. proprio perche di lieve entità, ma lui mi assicura che non c’è proprio la possibilità che questo si sia verificato. Quando gli chiedo di toccarsi la zona dolente (cosa che faccio sempre, perché non mi fido mai della localizzazione verbale di un disturbo, a meno che si tratti di un collega e che conseguentemente presumo che conosca l’anatomia umana), lui mette la mano introno al bicipite proprio dove termina il deltoide, indicandomi poi in modo però più impreciso e diffuso la zona in cui si estende il dolore prossimalmente e distalmente.
Al telefono, mentre la madre mi faceva un resoconto, inizio a pensare ad una di quelle cervicobrachialgie da studente. A questo punto inizio a visitarlo. Obiettività a carico della spalla: negativa, senza ombra di dubbio. Obiettività a carico del rachide cervicale: negativa, senza ombra di dubbio. Allora inizio a palpare la zona indicata da B., tra deltoide e bicipite, e trovo decisamente il punto dolente. Non è in quel momento un dolore lancinante, perché ha da poco assunto l’ennesima bustina di ketoprofene, ma è presente, ben localizzato, vivo, e soprattutto molto ben localizzato. B. è un ragazzino esile, di costituzione minuta; i suoi muscoli pertanto non sono imponenti e mi consentono, palpando in profondità, di apprezzare quella che sembra una irregolarità del margine osseo dell’omero, proprio nel punto in cui B. ha dolore. Riprendo in mano i referti di Rx e dell’eco, pensando magari di aver letto in modo frettoloso, ma non c’è scritto niente di utile. Il dolore di B. è lì, proprio in quel preciso punto, e non si sposta. Cerco di distrarlo mentre lo visito , lo induco a parlare di altro, ispezionando altre aree circostanti salvo poi ritornare a palpare quel punto preciso, che, regolarmente, duole. E’ evidente che non sta simulando o esagerando nella manifestazione del disturbo, anzi, direi che la precisione con cui reagisce allo stimolo pressorio è impressionante. Così mi fermo, non elaboro nessun piano terapeutico ma sollecito la mamma affinchè venga recuperato il supporto digitale per poter visionare l’Rx di cui ho solo il “dettagliato” referto e spiego che, senza una certezza diagnostica è meglio non azzardare una proposta terapeutica fisica. Consiglio di sostituire il ketoprofene con Acido Acetilsalicilico e di informarmi sul tipo di riposta che B ha. Passano due giorni. L’ASA non ha effetto, quindi lo sostituisco con ibuprofene a rilascio graduato ed arrivano le immagini RX. In una proiezione non si vede niente di particolare, ma nelle restanti due proiezioni in corrispondenza del punto dolente, ingrandendo l’immagine, ho la netta impressione che la corticale sia come ispessita e, comunque, diversa rispetto agli altri tratti. Ma io non sono un radiologo e in un caso di tale delicatezza, dove il paziente ha solo 14 anni, vorrei essere confortata da uno specialista di riferimento, che sia radiologo o ortopedico pediatrico, prima di optare per una TAC mirata o addirittura una scintigrafia ossea. Nel frattempo, inoltre, B. ha effettuato l’ecocolordoppler ed il collega che lo ha esaminato, previa la sostituzione della sonda ecografica, ha avuto modo di percepire anche lui una irregolarità sulla diafisi omerale, proponendogli pertanto una RM senza mezzo di contrasto; tuttavia non vi è certezza di fattibilità dell’esame dal momento che l’apparecchiatura in dotazione è un’Artroscan, di quelle per le piccole articolazioni, e pertanto difficilmente sarà in grado di analizzare il terzo prossimale della diafisi omerale.
Così decido di scrivere una breve relazione di accompagnamento, in cui fondamentalmente cerco di attirare l’attenzione di chi mi leggerà proprio su quell’area di corticale con quell’aspetto anomalo, e invito B. e la madre presentarsi presso il Pronto Soccorso di un ospedale pediatrico. Qui vengono accolti, dopo qualche incertezza circa la massima età accettabile in P.S. (ma mi ero preventivamente informata, e l’accoglienza è fino ai 16 anni). I passi successivi sono una valutazione dell’ortopedico pediatrico, che richiede con urgenza una RM con mezzo di contrasto. Il resto della storia è una biopsia ossea, il cui scopo però è solo quello di stadiare la situazione, un colloquio con l’oncologo, il suggerimento di un supporto psicologico….. E qui mi fermo, pensando a quanto avrei preferito sbagliarmi ed aver fatto un po’ preoccupare inutilmente un genitore.
I casi clinici sono resoconti di altri colleghi dai quali si può imparare qualcosa di utile in campo clinico. E da questo caso si può imparare tanto.
Si può imparare che la cosiddetta “Medicina Difensiva” che in questi ultimi anni ha condotto sempre più medici ad essere estremamente cauti nell’esprimere diagnosi, non tutela mai il paziente, ma in casi come questi non tutela nemmeno il medico, perché l’omissione diagnostica ha messo in serio rischio la vita del paziente.
Si può imparare che la visita clinica, il “toccare”il paziente, lo “sporcarsi” le mani, sono momenti fondamentali per la diagnosi. Perché le immagini diagnostiche devono sempre essere messe in relazione con l’obiettività clinica, dal momento che le une si integrano con le altre contribuendo a realizzare il “Quadro” clinico: del resto, ci sarà un perché si definisce con la parola “Quadro”.
Si può imparare che senza una diagnosi, non solo la prescrizione di un percorso riabilitativo rischia di essere inutile, ma addirittura può essere dannoso e nocivo. Sto solo pensando a tutte quelle terapie fisiche dalle caratteristiche bio-stimolanti che sarebbero state tanto invitanti in questo caso.
E, in conseguenza di quest’ultimo punto, tremo alla domanda che mi sto ponendo in continuazione da giorni: cosa sarebbe potuto succedere se questa mamma, se questo paziente, come tanti troppo spesso, fossero ricorsi direttamente al fisioterapista o all’osteopata di turno senza passare dal Fisiatra?
C’è molto da imparare e da riflettere su queste righe.