Alcune osservazioni sulle società scientifiche con particolare riferimento all’ambito riabilitativo italiano
La comunità scientifica creò le “Accademie” per collaborare e scambiare informazioni dando la possibilità di un ambito di discussione delle teorie mettendo in gioco le proprie idee e la possibilità che dal confronto fra pari si rivelino falle, errori sperimentali od incongruenze della teoria. L’interpretazione del reale non è più affidata all’autorevolezza del proponente e diventa possibile mettere in discussione i dati sperimentali: si integra e completa la metodologia galileiana. Da notare che la domanda di appartenenza ad una società scientifica è accuratamente vagliata dai membri della stessa onde garantire che i membri siano onesti, onorabili, competenti e soprattutto abbiano svolto attività potenzialmente di incremento del sapere: non vi è alcuna tendenza ad aumentare il numero di aderenti. Alla fine del secolo scorso si è concluso un processo di spostamento della comunicazione dei propri risultati scientifici dalla comunicazione verbale, nel contesto di una riunione o di un congresso organizzato da una accademia, alla pubblicazione con riviste e libri: ciò ha portato alla sostituzione delle accademie con le società scientifiche.
Un secondo effetto sulla maggior parte delle società scientifiche è stata una trasformazione verso un ruolo sindacale o politico arrivando in alcuni casi a divenire camera di compensazione per quanto riguarda l’avanzamento accademico ed in generale la carriera delle persone afferenti al campo di interesse della società stessa.
Ulteriore evoluzione, a seguito della parcellizzazione del sapere, è stata la moltiplicazione delle società scientifiche legata al desiderio di creare ambiti omogenei; di conseguenza (voluta o meno) compare l’introduzione, formale o de facto, in alcune società scientifiche di obiettivi di carriera o più in generale di difesa (e possibilmente conquista) sindacale di spazi professionali per gli aderenti e, dato che la miglior difesa è l’attacco, ricerca delle posizioni di potere (piccolo o grande) di chi fa rifermento alla società.
D’altro canto la necessità pratica di sviluppare il campo di interesse genera subito il rischio di trasformare la comunità scientifica in lobby sindacale.
Sintetizzando quanto esposto finora potremmo dire che nel corso del tempo si è avuta una mutazione da luogo di discussione delle idee fra ricercatori che reciprocamente si riconoscono degni di appartenerle, ad insieme di persone che hanno interessi comuni nell’ambito di un particolare campo di ricerca. Questo peraltro comporta che, anche a rischio di associare inetti, vi sia una propensione all’incremento degli aderenti ad un patto federativo (lo statuto della società scientifica) spesso nemmeno letto dal socio.
Esempio interessante è la novità del campo di interesse: senza precedenti clinici di rilievo né cattedre universitarie la riabilitazione italiana, caratterizzata al momento della nascita della Società Scientifica di Riabilitazione, dalla assenza di figure universitarie nell’ambito riabilitativo di modo che essa fosse fondata da personalità di grande valore clinico che non avevano come interesse principale la ricerca e la maggioranza dei soci era, ed è tuttora, rappresentata da medici né universitari né afferenti a centri di ricerca. Se questo può essere ascritto a merito dei fondatori, ha tuttavia facilitato l’acquisizione di una strettissima simbiosi con il sindacato: fino a pochi lustri or sono l’iscrizione alla società era praticamente congiunta con quella al sindacato e gli esponenti del sindacato partecipano di diritto alle riunioni di organi direttivi della società. Sebbene fra i membri della società non manchino ricercatori di chiara fama, la società solo recentemente e in misura molto limitata attua attività legate allo sviluppo della ricerca, l’organo ufficiale della società è riuscito a raggiungere un’ottima collocazione nell’ambito della stampa scientifica indipendentemente dalla attività della società, non a caso da qualche decennio l’editor non è cambiato al succedersi degli organi della società. Possiamo ritenere quindi che la SIMFER rappresenti bene le caratteristiche finali della trasformazione dell’Accademia Scientifica in associazione parasindacale. A riprova scorrendo l’elenco dei titoli dei congressi nazionali si può notare come non siano infrequenti argomenti di tipo gestionale o organizzativo. Di più la fine dell’unicità della SMFER come società scientifica dei fisiatri con la nascita dell’ARSOP é originata dalla sponsorizzazione da parte della segreteria SIMFER di una delibera sull’appropriatezza dei ricoveri riabilitativi in Regione Lombardia, atto di natura politico-sindacale. Questa situazione non configura un problema etico, casomai evidenzia più di altre società una questione identitaria la difficoltà di scindere gli aspetti di ricerca e comunicazione scientifica da quelli di tipo sindacale che finiscono con l’essere preponderanti. La questione etica in questo contesto si configura soprattutto rispetto agli aspetti comunicativi sulla natura della società (ambito di discussione scientifica o di difesa sindacale del ruolo?) ed alle attività caratterizzanti: in questi anni vi è stato un lodevole incremento delle attività di formazione rivolte ai soci soprattutto più giovani, ma quanto quest’attività può essere considerata tipica di una società scientifica? L’allontanamento della società dall’aspetto scientifico di ricerca é altresì testimoniato dalla possibilità che a dirigerla possa essere eletta una persona, proveniente dal sindacato, praticamente priva di pubblicazioni nella letteratura scientifica. Non è eticamente riprovevole che una cassiera sia messa come responsabile della sperimentazione dei prodotti OGM, però ci si potrebbe domandare se abbia l’esperienza e le competenze per farlo. Nel caso della SIMFER la questione etica non riguarda tanto (le persone de)gli organismi dirigenti, quanto la coerenza fra scopi scientifici dichiarati e competenze di chi la rappresenta e, più in generale, fra l’attività degli organi di indirizzo e gestione e lo sviluppo della ricerca. Intendiamoci la questione non è solo della società dei fisiatri, ma appunto per questo varrebbe la pena di mettere a fuoco il problema che nel caso in oggetto, per motivi storici, è particolarmente esemplificativo. Due ultime osservazioni generali: salvo rarissime eccezioni (Lincei, Crusca, …) le accademie hanno concluso il proprio ciclo vitale, la comunicazione del sapere ha preso altre strade, l’evoluzione in società scientifiche ha accentuato la parcellizzazione del sapere ed ha creato un problema di identità (scopi). Si può evidenziare una questione etica data dalla discrepanza fra la missione teoricamente dichiarata negli statuti e la prassi: molto frequentemente i congressi societari più che occasione di discussione di risultati innovativi sono ambito di accordo e compensazione per la suddivisione di posti e pianificazione di carriere fra gruppi di potere.
Questo fortunatamente non coinvolge la SIMFER; infatti per la carriera dei soci si potrebbe osservare che sia l’ambito accademico (tendente per natura all’autoreferenzialità) che quello ospedaliero (purtroppo spesso legato ad attori socio politici locali) costruiscono le carriere dei propri aderenti prescindendo completamente dell’esistenza della società scientifica. Al massimo si potrebbero discutere gli aspetti legati alle scarse novità scientifiche presentate nei congressi e alla qualità dei contributi [1] od ai rimborsi spese per congressi e missioni societarie in amene località turistiche estere, ma entreremmo nel moralismo farisaico.
Partendo dall’evoluzione storica si potrebbero proporre per lo sviluppo del ruolo delle attuali società scientifiche una modifica degli statuti che ponga come propria ragione sociale gli aspetti di formazione sul campo, sociali e sindacali propri della particolare disciplina dei propri aderenti. Dato che la ricerca scientifica è sempre più collaborativa e supera frequentemente la suddivisione in discipline specifiche, il recupero della natura originaria delle Accademie potrebbe svilupparsi secondo forme simili a quelle in uso comune in ambito informatico: chiunque abbia partecipato od assistito alla Hacker Conference o a Def Con si è reso conto di come vi sia una costante interazione fra pubblico e relatori (tutti invitati in base a che cosa di interessante hanno attuato) che va al di la delle presentazioni, peraltro estremamente originali ed innovative, coinvolgendo i partecipanti in gare di abilità nell’individuare i bugs presenti nel lavoro dei convegnisti o nel badge dei partecipanti. Questi convegni sono la parte in presenza dell’attività di una comunità (Accademia?) che interagisce nel tempo contribuendo alla soluzione di problemi coinvolgendo esperti che mettendo in comune il proprio lavoro integrano e correggono l’altrui produzione. La struttura, un ambito comune in rete (ad es Github) in cui depositare il proprio contributo, poche e precise regole per l’utilizzo di quest’ambito ed un criterio generale riassumibile nello slogan “la partecipazione è aperta a tutti coloro che sanno interagire portando un contributo e chi non si attiene alle regole o ha un comportamento truffaldino viene espulso”, potrebbe essere adattata facilmente alla finalità scientifica ed alla ricaduta clinica della ricerca. In un mondo utopico col contributo della meritocrazia potrebbero nascere comunità di scienziati ricercatori (clinici e non) in grado di far avanzare la conoscenza mettendo in comune le proprie capacità pianificando studi collaborativi sfruttando l’interazione fra competenze di base, organizzative, statistiche, cliniche, informatiche e creative.
[1] Un problema dei congressi scientifici attuali (che le antiche accademie non avevano) è che per sostenerne il costo occorre avere un’alta partecipazione, ma questo fa sì che non si possa essere estremamente selettivi nella scelta dei contributi: in effetti spesso la partecipazione è legata al programma extra congressuale (turismo ed intrattenimento) che viene potenziato appunto per attrarre partecipanti, ma questo costa e si instaura un circolo vizioso.
Cesare Cerri ha lanciato il sasso in piccionaia, tanto da coinvolgere anche il Direttore di questa rivista a rompere il proprio ruolo di ospitante silenzioso. Alcune affermazioni sono senz’altro condivisibili, altre molto meno. Credo che gli aspetti professionali ed organizzativi abbiano un ruolo molto rilevante nel contribuire a creare le condizioni migliori in cui una Disciplina possa svilupparsi, progredire e dunque produrre il massimo impegno per il raggiungimento di traguardi più avanzati, anche scientifici e viceversa. Mi porrei ancora altri interrogativi. Come é possibile che la trasmissione di cattedre universitarie per via genetica resti un patrimonio quasi esclusivo di questo Paese senza che nessun esponente del mondo accademico ponga qui la questione morale o esterni la propria indignazione? Perché non si parla delle cattedre ottenute per chiara fama? Ed i lavori scientifici che hanno portato in cattedra alcuni universitari che peso reale hanno rispetto al lavoro quotidiano di tanti colleghi ospedalieri, impegnati quotidianamente a fare le cose di cui alcuni parlano con dotta disinvoltura ?
Credo che il mondo della cultura e della scienza medica siano molto più complessi di quanto possiamo immaginare con la nostra buona fede e passione, nonostante abbiamo tutti vissuto parecchi decenni di battaglie professionali.
Forse se guardassimo con più attenzione a quello che accade oltreoceano, potremmo guardare con diverse speranze ad una comunità scientifica e professionale fondata sui meriti e sulle capacità personali.
Sono rispettoso del prof Cerri per non poter dire semplicemente che non condivido la sua analisi, ma pur non avendo vissuto la stagione delle Accademie, ho vissuto la Società Scientifica della Medicina Fisica e Riabilitativa dai tempi delle presidenze Megna ed ho seguito molto la storia della Simfer tramite l’amicizia con il prof Bertolini per poter dare solo un giudizio positivo alla stagione delle società scientifiche e ai risultati ottenuti sia nel campo scientifico vero e proprio che nel settore organizzativo-gestionale dei posti letto. Inoltre penso che sia competenza del mondo clinico, scientifico e accademico porsi i problemi gestionali tipici della medicina moderna e quindi anche della difesa del ruolo del Fisiatra. Ritengo che questa difesa sia più un problema scientifico che sindacale, così come allo stesso modo si sosterrebbe che spetta al chirurgo ortopedico operare una protesi d’anca piuttosto che ad un altro specialista o ad un’altra figura sanitaria, così come della sperimentazione sugli ONG è meglio che non si interessi una cassiera, anche se a volte lei è magari più pratica dell’uso quotidiano degli ONG che un ricercatore chiuso nel suo laboratorio. Anche se molti potrebbero dire che è paradossale ma ritengo che una studentessa sedicenne di Kabul possa essere potenzialmente più capace in alcune materie di una professoressa di Boston. L’importante è dare la possibilità a quella studentessa di crescere.L’obiettivo, per me, è sempre stato di motivare più soci possibili alla partecipazione in quanto due o più opinioni sono meglio di una, perché producono il confronto e la possibilità di una scelta non solo più democratica ma forse migliore. So bene che oggi questo pensiero puó essere considerato populista, ma ritengo che il compito di “noi anziani” sia aiutare i giovani a crescere, anche se poi ci daranno torto. Sui congressi condivido le perplessità espresse dal prof. Cerri o dallo stesso Avesani nel suo ultimo libro In punta di mani, nel capitolo ” congressi” (pag. 90-92), ma penso che nel XXI secolo l’aggiornamento scientifico debba avvenire in tempo reale con la tecnologia a nostra disposizione e che i congressi possano essere uno strumento per facilitare la crescita di una comunità, anche confrontandosi nei corridoi o nei luoghi conviviali e comunque siano l’opportunità per creare una palestra per quei fisiatri più giovani o con minori possibilità di “relazionare e relazionarsi”, non stando in luoghi accademici.
Il gusto della provocazione (forse) può aver interferito con la chiarezza dell’esposizione,, sono grato al Direttore per i commenti e ne approfitto per rilanciare quanto scritto. Anzitutto l’obiettivo non è quello di abolire le società scientifiche, bensì di discuterne l’ulteriore sviluppo: allo stesso modo che nel secolo scorso con il diffondersi di modi di vita e mezzi di comunicazione innovativi ci si è resi conto che la struttura delle Accademie non rispondeva più alle finalità della crescita del sapere così la comparsa del web, la globalizzaizone dell’informazione ed i tentativi (in Italia) di rendere meno opaca l’assegnazione di ruoli in università, evidenziano, a mio parere, la necessità di un cambio di paradigma anche per le attuali società scientifiche. In particolare credo che debbano essere chiariti i rapporti fra azioni che hanno a che fare con lo sviluppo della scienza ed attività che hanno come obiettivo la possibilità per chi ne utilizza le ricadute cliniche di crescere e sviluppare la propria azione clinica. La mia particolare posizione (ma non è detto sia la migliore) è che le prime ricadano specificamente nell’ambito del percorso Accademia->Società Scientifica->Nuova evoluzione, mentre le seconde sono più facilmente riconducibili nell’ambito dell’attività di un sindacato. Non dico che fra le due non ci debba esser comunicazione (senza presupposti scientifici mancano le ragioni per chiedere spazi clinici), bensì che l’efficienza richiederebbe una separazione di strutture e persone fra le due. Va da sé che per favorire l’evoluzione della società occorrerebbe una persona che già nell’ambito societario si sia occupata di sviluppare le ricerche in ambito fisiatrico, possibilmente attraverso organi societari e meglio se proveniente dall’ambito ospedaliero/ambulatoriale. Posso non dissentire da alcune delle osservazioni riguardanti l’Università, tuttavia quanto detto nell’articolo non è una valutazione dei rispettivi meriti (e demeriti) di ospedalieri ed universitari, solo una constatazione di fatti che appartengono alla storia della nostra disciplina. Sulle modalità di trasmissione delle cattedre fornisco un ricordo risalente a qualche lustro fa quando ero ancora studente di medicina: pubblicammo un su un tatzebao (visto che nessuna rivista lo accettava) un articolo che illustrava la scoperta di una nuova modalità di trasmissione genetica, accanto a quella patrilineare (meno frequente quella matrilineare) delle cattedre: la trasmissione per acquisito matrimonio, non era invece statisticamente significativa quella per letto non matrimoniale (troppi i dati mancanti per andare oltre il trend). Non è detto comunque che i figli non possano essere all’altezza dei padri Pearson figlio che prese la cattedra del padre ebbe al suo attivo l’omonimo coefficiente. Ad ulteriore chiarimento: è vero che gli aspetti organizzativo gestionali sono una delle peculiarità che la medicina riabilitativa richiede ai propri specialisti, per cui non è improprio scambiarsi le idee su questo, ma la ricerca ed i modelli teorici sono, per ora, appannaggio di ricercatori non medici e gli aspetti applicativi più, ripeto, a mio parere, di natura sindacale, per cui la frequenza di questi temi nei nostri incontri suggerisce un predominio della faccia sindacale su quella scientifica (almeno per alcuni periodi della nostra storia). NB finale non voglio dire che quanto fatto non fosse magari necessario o viceversa inutile: è stato fatto ed il passato non ritorna (nonostante Vico). Non credo sia utile iniziare botta e risposta o polemiche su quanto fatto finora, lo scopo della provocazione è suscitare proposte ed idee per il futuro onde non fare la fine della Accademia Ciao Cesare