Un caso raro, ma emblematico

Anno: 2024 - Vol. 9 / Fascicolo: 16 / Periodo: lug-set

Autori:

Accursio Miraglia

Consulente tecnico presso il Tribunale di Sciacca

Direttore sanitario “Centro di Educazione Psicomotoria”, Sciacca (AG)


Quella che sto per raccontarvi è la storia di un infortunio e dei successivi trattamenti riabilitativi la cui pessima riuscita potrebbe aver cambiato la vita professionale di un giovane.

Accolgo al mio studio un giovane, al quale daremo lo pseudonimo di Luca, che circa 7 mesi prima, mentre era impegnato nella preparazione fisica utile ad affrontare le prove fisico-attitudinali per entrare in un Corpo Militare, aveva iniziato ad accusare un dolore all’anca ed alla coscia di sinistra. Considerata l’intensità degli allenamenti il dolore era stato imputato ad un banale sovraffaticamento e trattato con l’assunzione di qualche compressa di Tachipirina.

A causa della persistenza della sintomatologia il paziente si rivolgeva, su consiglio di un conoscente medico (sic!), ad un sedicente fisioterapista (sedicente in quanto non in possesso del titolo a quell’epoca), che consigliava l’immediata esecuzione di un esame ecografico alla coscia.

L’ecografia evidenziava una “assenza di alterazioni ecostrutturali della trama miofibrillare delle strutture muscolo-tendinee del distretto anatomico esaminato”. Il medico radiologo, alla luce della sintomatologia e della clinica rilevata, consigliava l’esecuzione di una risonanza magnetica all’anca sinistra, omolaterale alla regione dolente.

Il paziente, ritenuto evidentemente che il parere del radiologo fosse subordinato a quello del terapista, gli riferiva la prescrizione ricevuta, che, per fortuna, veniva ritenuta adeguata.

La risonanza evidenziava chiaramente una frattura intraspongiosa da stress del collo femorale sinistro.

Il paziente, così, circa due mesi dopo l’esordio della sintomatologia ed esibendo gli accertamenti eseguiti, si sottoponeva a “visita” presso il suddetto terapista che, contraddicendo le chiarissime risultanze strumentali, imputava la causa della sintomatologia ad uno strappo muscolare a carico della coscia sinistra.

Il paziente veniva quindi sottoposto a 30 sedute di Tecarterapia e Crioterapia, senza riceverne alcun beneficio.  

A causa della persistenza di sintomatologia algica ed impotenza funzionale, dopo altri 3 mesi il paziente, sfibrato dalla persistente sintomatologia, si sottoponeva a visita fisiatrica.

Il medico, concordando con la diagnosi di frattura da stress, sottoponeva il paziente a trattamento con campi magnetici, dal quale derivava notevole beneficio.

Dovendo per motivi logistici sospendere il trattamento presso il centro di fisioterapia presso il quale era in carico, il paziente afferiva ad un nuovo centro, dove veniva sottoposto ad una seconda visita fisiatrica. Anche in questo caso il paziente, in accordo con la diagnosi di frattura da stress, veniva sottoposto a trattamento con campi magnetici, con ulteriore beneficio.

Così, a distanza di circa 10 mesi dall’esordio della sintomatologia, il paziente riprendeva l’attività fisica, avendo però perso l’occasione di partecipare alle selezioni fisiche per il concorso.  

Alla luce della storia clinica e, soprattutto, degli accertamenti esibiti, appare evidente che Luca è stato vittima di una frattura da stress a carico del femore sinistro.

In questo caso il trattamento strumentale dovrebbe prevedere l’utilizzo di campi magnetici. 

Il trattamento tramite Tecarterapia e crioterapia, pur indicato nei traumi acuti dell’apparato muscolare e tendineo, non poteva migliorare il quadro di frattura da stress del collo femorale sofferto dal paziente.

La colpa

Anche se il paziente si era rivolto ad una figura non medica, l’iter diagnostico degli esami strumentali è stato corretto, con esecuzione di una ecografia e, successivamente, di una risonanza magnetica, come consigliato dal medico radiologo che aveva eseguito l’ecografia.

Gli ingredienti per il corretto inquadramento del problema e per stilare un piano riabilitativo adeguato c’erano tutti e non si comprende come, a fronte di accertamenti strumentali che escludevano la presenza di uno strappo muscolare ed invece indicavano con chiarezza la presenza di una frattura da stress, il terapista abbia insistito sulla diagnosi di strappo muscolare. 

In primis è indubbia una evidente imperizia (imperito colui che non sa o non sa fare quello che ogni altro collega di pari livello professionale avrebbe correttamente eseguito nello stesso caso clinico), considerato che l’espressione clinica di uno strappo muscolare è ben diversa da quella di una frattura da stress, che il paziente non presentava alcun ematoma e che non vi era dolore alla mobilizzazione attiva, anche contro resistenza, della gamba sulla coscia.

Il terapista si è macchiato anche di una gravissima negligenza (che, si ricorda a chi scrive, è la meno scusabile delle colpe in materia sanitaria perché, a causa di svogliatezza, leggerezza, superficialità o altro, vengono trascurate le regole comuni di diligenza richieste nell’esercizio della professione) in quanto non ha prestato adeguata attenzione agli accertamenti strumentali, che avevano escluso categoricamente la presenza di uno strappo muscolare, a favore della diagnosi della frattura da stress del femore sinistro.

Se è vero che in campo medico vi è l’obbligo di mezzi e non di risultato, nel caso in oggetto proprio la scelta dei mezzi è stata errata. In tal senso il risultato sperato (la guarigione) era irraggiungibile.

A conferma dell’infelice scelta terapeutica, conseguenza della scellerata insistenza su una diagnosi errata, quando il paziente è stato sottoposto a trattamenti adeguati, il quadro clinico è migliorato rapidamente, fino alla completa risoluzione.

Quando ho conosciuto Luca una parte del mio cervello si è immediatamente chiesta se il suo caso si potesse definire “malasanità”. Considerato che quest’ultima è definita come “una carenza generica della prestazione dei servizi professionali rispetto alle loro capacità che causa un danno al soggetto beneficiario della prestazione”, non ho avuto dubbi nel collocare questa storia nella casella della malasanità, aggravata, a mio parere, da diversi altri fattori.

Diagnosi: tutte le opzioni

Definita come la procedura di ricondurre un fenomeno a una categoria dopo averne considerato ogni aspetto, la diagnosi è l’identificazione della natura e/o della causa di qualcosa.

Oggi, verrebbe da dire, la diagnosi è alla portata di tutti: esistono diversi siti che offrono un “controllo dei sintomi self-service” e innumerevoli sono le figure sanitarie e parasanitarie che offrono consulenze, pareri, opinioni e dispensano “consigli”.

Su internet si trova di tutto.

Ad esempio, un fisioterapista afferma che “…un fisioterapista è in grado di valutare un paziente e stabilire un piano terapeutico mirato. Non è indispensabile assolutamente l’esame strumentale o la diagnosi clinica…sarà lo stesso fisioterapista a consigliarle l’esame qualora lo ritenesse opportuno”.

Il fisioterapista “valuta” non “visita”, “stabilisce un piano terapeutico mirato” non “prescrive un protocollo riabilitativo”, “consiglia l’esame” (strumentale!) ma non lo “prescrive”.

Si viaggia sul filo della semantica per non dare alle cose al loro nome, cioè “diagnosi” e “prescrizione”, nel tentativo di schivare il reato di “abusivo esercizio”

Un altro terapista offre, per 20 euro, un “servizio di lettura e traduzione di referti di indagini radiologiche, parere che non sostituisce quello del professionista sanitario” (neanche la parola medico viene usata!), ma poco male visto che quest’ultimo “vi darà un appuntamento di 10 minuti dove pagherete 150 euro per ottenere la lettura del referto e l’aumento immotivato di paure e preoccupazioni”.

Spulciando su internet si trova anche l’offerta di un videocorso per manipolazioni vertebrali interamente online, che fa, quindi, a meno della parte pratica in presenza!

Il fisioterapista? Insostituibile!

A scanso di equivoci chiarisco che l’analisi di questo caso non è una critica ai fisioterapisti. È questa una categoria indispensabile per il Fisiatra, parte integrante ed indispensabile del trattamento riabilitativo, effettori di un progetto che hanno merito quanto il medico dei risultati ottenuti sul campo.

Difendo anche la fisiologica autonoma capacità valutativa dei fisioterapisti che, ad esempio, attraverso l’esame fisioterapico valutano le variabili inerenti alla patologia (libertà di movimento, forza muscolare, autonomia nella vita quotidiana) all’inizio del trattamento e alla fine, in modo da poter confrontare i due dati ed evidenziare un eventuale miglioramento con valutazione posturale, test muscolari, test neurologici e test propriocettivi.

Da fisiatra non potrei mai fare a meno dei fisioterapisti.

Ciò che mi stupisce è che talvolta accada il contrario.

Diagnosi: il ruolo del medico

Secondo il codice di deontologia medica “la diagnosi a fini preventivi, terapeutici e riabilitativi è una diretta, esclusiva e non delegabile competenza del medico e impegna la sua autonomia e responsabilità”.

Ed inoltre La prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico”.

L’Unione Europea dei Medici Specialisti (UEMS) ha pubblicato un documento che contiene la “Definizione europea di Atto Medico”. Questa definizione, adottata per la prima volta nel 2005, dice che “L’atto medico ricomprende tutte le attività professionali, ad esempio di carattere scientifico, di insegnamento, di formazione, educative, organizzative, cliniche e di tecnologia medica, svolte al fine di promuovere la salute, prevenire le malattie, effettuare diagnosi e prescrivere cure terapeutiche o riabilitative nei confronti di pazienti, individui, gruppi o comunità, nel quadro delle norme etiche e deontologiche. L’atto medico è una responsabilità del medico abilitato e deve essere eseguito dal medico o sotto la sua diretta supervisione e/o prescrizione”

Sembra quasi banale che si debba fare riferimento a delle normative quando il buon senso sarebbe sufficiente a far comprendere che il trattamento di un paziente deve essere assolutamente preceduto da una diagnosi di patologia ed una diagnosi differenziale oltre che dalla consultazione o prescrizione di esami specialistici, e che questi compiti sono di esclusiva ed insostituibile pertinenza del medico.

Eppure, è prassi quotidiana che la diagnosi sia formulata da soggetti che medici non sono, con le relative, inevitabili, conseguenze. 

Forse perché il business dei trattamenti aumenta ogni giorno di più, visti anche i milioni di nostri connazionali affetti da forme di algia meritevole di trattamento fisioterapico.

La torta è molto grande, e molti vogliono sedersi al tavolo per averne una fetta.

Un po’ di giurisprudenza

L’abusivo esercizio della professione medica rappresenta un fenomeno di allarme sociale sempre maggiore. 

Per l’esercizio di determinate professioni (cc.dd. “professioni protette” individuate ai sensi dell’art. 2229 c.c.) la legge richiede il conseguimento di una speciale abilitazione cui seguirà l’iscrizione all’apposito albo o elenco professionale. L’esercizio di tali professioni che avvenga senza il conseguimento di tale abilitazione è dunque abusivo.

La Corte di cassazione sezione penale, con sentenza n.8885 del 3 marzo 2016 ha confermato che “ciò che rileva ai fini dell’accertamento del reato di esercizio abusivo della professione medica (…) è la natura dell’attività svolta. Ciò che caratterizza l’attività medica, per la quale è necessaria una specifica laurea e una altrettanto specifica abilitazione, è la diagnosi, cioè l’individuazione di un’alterazione organica o di un disturbo funzionale, la profilassi, ossia la prevenzione della malattia e la cura. La legge non consente, quindi, di ritenere lecito l’esercizio di un’attività medica da parte di chi non ha le competenze tecnico-scientifiche formalmente asseverate a seguito del conseguimento dell’abilitazione. 

L’esercizio abusivo della professione c.d. protetta è punito ai sensi dell’art. 348 del codice penale.

In tale reato incorre persino il laureato in Medicina e Chirurgia non abilitato o non iscritto all’albo.

Ciò premesso non comprendo, neanche sforzandomi, come un professionista, anche serio, anche preparato, ma NON laureato in Medicina possa pensare di formulare una diagnosi e prescrivere piani terapeutici o accertamenti strumentali.

Conclusioni

È chiaro che la storia clinica di Luca è caratterizzata da un episodio di rara imperizia e negligenza, che non deve in alcun modo gettare discredito su qualunque figura sanitaria.

Tuttavia, è un caso emblematico di come il medico, nel nostro campo il fisiatra, sia sempre più spesso scavalcato, considerato non indispensabile, quasi un accessorio in ambito riabilitativo.

Dispiace che debbano essere i tanti “Luca” a pagare lo scotto di scelte anche solo errate se non chiaramente dissennate.

Da una scelta errata possono derivare danni, fisici e morali.

Intanto Luca, guarito in tempi oltremodo lunghi per un errato inquadramento diagnostico e terapeutico, per raggiunti limiti di età non potrà più partecipare al concorso e dovrà forzatamente riscrivere la sua vita professionale.

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